Cosa sono (e soprattutto cosa NON sono) i personaggi di una storia.
Un personaggio è il motore della storia. Senza di lui, i magnifici mondi sapientemente creati nel post sugli universi narrativi sarebbero solo degli enormi gusci vuoti. Tramite il personaggio scopriamo universi sconosciuti, ridiamo, piangiamo, abbiamo paura, ci innamoriamo… Un personaggio è un vero e proprio gancio emotivo con cui possiamo connetterci in luoghi fuori dal tempo e dallo spazio pur rimanendo seduti in poltrona. Come mai è uno strumento così potente per il narratore? Perché riusciamo a connetterci con un’entità estranea e incorporea come il personaggio di una storia e a provare gli stessi sentimenti? E come è possibile creare un personaggio interessante?
L’importanza dell’avatar.
Tutti noi sappiamo cos’è un avatar. Ne abbiamo diversi: il nostro profilo Facebook, ad esempio, o quello di Instagram, rappresentano il nostro avatar digitale. O l’account Google per scaricare i programmi per il telefono, se hai un Android, o il profilo IOS per la Apple. A proposito di giochini per il cellulare, ogni gioco, ogni partita che fai, un tuo avatar “esegue” i tuoi ordini, anche se è un gioco puramente astratto, come Candy Crush. Se sei un gamer e giochi online, allora avrai una tua identità fittizia che fa da tramite tra te e il mondo di gioco di cui fa parte. E se leggi una storia o guardi un film… i loro personaggi non sono altro che delle maschere pronte per essere indossate dallo spettatore. Ma basta questo per descrivere davvero cosa sia un avatar? No.
Che cos’è un avatar.
Secondo sempre l’autorevole sig. Treccani, l’avatàr:
[…] Nel brahmanesimo e nell’induismo, la discesa di una divinità sulla terra, e in partic. ciascuna delle 10 incarnazioni del dio Visnù.
Da cui la parola Avatara, che significa:
Letteralmente “discesa”; a un dipresso “incarnazione”. L’intimo significato di questo concetto religioso dell’India è, non di una manifestazione transitoria del divino, ma della presenza reale della divinità in un essere umano, di una fusione intima delle due nature in un unico essere, che è veramente dio e veramente uomo.
Il concetto originario di Avatar è un qualcosa di straordinario, di divino. Noi oggi lo banalizziamo con un nostro alter-ego digitale, ma il suo significato reale, religioso è tutt’altro: un’entità superiore può impossessarsi di una forma umana, ma non la sostituisce né l’annulla, ma si fonde ad essa, diventando nello stesso momento Dio e Uomo.
L’ubiquità dell’uomo.
Si può essere in due posti nello stesso momento? Ovviamente no. Ma ne siamo davvero sicuri?
Non solo gli induisti credono nel concetto di Avatara. Per la chiesa cattolica ogni uomo, ogni essere può parlare con la voce di Dio, perché egli è in tutte le cose, così come il Diavolo può impossessarsi delle menti degli individui deboli e lontani dalla luce, e da qui l’esorcismo. Gli oracoli pagani del passato parlavano attraverso le voci degli dèi. Le divinità si impossessano dei nostri corpi dall’alba dei tempi, spostandosi dai loro regni ultra-terreni e fondendosi con le nostre carni, diventando un’unica cosa. Sono in due mondi nello stesso momento.
La stessa identica cosa avviene quando leggiamo un libro, guardiamo un film, o giochiamo a un videogioco. Il nostro subconscio trascende la realtà per entrare nell’essenza di un concetto, di un’idea, ossia un personaggio, e da lì ne diventa un tutt’uno, provandone le medesime emozioni. Si può essere in due posti nello stesso momento? Forse sì.
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Il principio dell’empatia.
Lascia che te lo dica: sei un lurido maiale. Non importa quanto cerchi di atteggiarti ad essere umano, e non mi importa nemmeno se indossi dei vestiti raffinati: porco sei e porco rimarrai.
Ti starai chiedendo se per caso il vecchio Leo non sia improvvisamente impazzito. Ah, ah! Perdonami, non volevo offenderti, perché fai quella faccia? Eppure quando guardi “Il Porco Rosso” del maestro Miyazaki sei ben felice di essere UN MAIALE. O una brutta pantegana ogni volta che leggi Topolino. O peggio, un insulso insetto quando guardi “Z la Formica”.
Se ti ho spiazzato con queste frasi significa che non hai mai fatto realmente caso in che cosa tu ti sia trasformato nelle centinaia di storie che hai vissuto. Siamo esseri umani, e la logica vorrebbe che riuscissimo a connetterci emozionalmente soltanto con altri nostri simili. Eppure siamo circondati da storie che hanno come protagonisti esseri molto diversi da noi, come gli animali, e non solo: Numero 5 di “Corto Circuito” è un robot, mentre in “Cars” ci sono solo automobili. Nella serie animata “Esplorando il Corpo Umano” siamo dei maledettissimi globuli rossi, accidenti! Come diavolo è possibile?
L’immedesimazione.
Analizziamo la parola Empatìa:
Capacità di immedesimarsi e fare propri gli stati d’animo di un’altra persona. […] quale meccanismo generale di riconoscimento reciproco tra creature dotate di mente […].
Come al solito torna in ballo la nostra pluri-milionaria evoluzione. Per un’analisi più approfondita vi rimando direttamente alla pagina di Treccani relativa all’argomento, ma quello che a noi interessa è capire la dinamica base di questo principio e come mai ne siamo così soggetti.
Supponiamo il caso che tu e la tua amica Carla dobbiate assaggiare uno yogurt che a prima vista sembra scaduto. Giocate a bim, bum, bam per decidere chi dei due debba assaggiarlo e la tua amica perde. Carla toglie lentamente la pellicola, affonda il cucchiaino nello yogurt scaduto, e il suo volto comincia già a contorcersi in una smorfia disgustata. Prova a pensarci: quale sarebbe la tua reazione? Stai già cacciando fuori la lingua al pensiero, dico bene? Carla ne prende una piccola cucchiaiata (già senti l’acido che gira per la bocca), poi se lo guarda attentamente con una faccia schifata all’inverosimile, e poi se lo mette in bocca. Tempo due secondi lo sputa, inizia a fare smorfie e a cacciare fuori la lingua, la stanza si riempie di un odore pungente e sgradevole, e correte entrambi a sciacquarvi la bocca.
I neuroni a specchio.
Avanti, ammettilo: è molto probabile che tu abbia bisogno di un po’ di acqua fresca, perché anche tu, paradossalmente, ti sei comportato/a come se avessi mangiato quello yogurt andato a male. Eppure non l’hai fatto: stai leggendo la pagina di un sito, tesoro!
La parola magica è immedesimazione. Non importa se tu non abbia mai mangiato uno yogurt scaduto, sicuramente nella tua esperienza terrena avrai messo in bocca qualcosa di aspro e acido. Il tuo cervello ha tradotto le espressioni facciali di Carla, e i tuoi neuroni a specchio hanno mandato degli impulsi nervosi nell’area dell’elaborazione dei gusti, ricreando A) l’espressione di disgusto, e B) la sensazione di avere qualcosa di sgradevole in bocca.
Questo giochino mentale è una cosa molto comune ai mammiferi con delle forte dinamiche sociali (come noi scimmie evolute), e ci ha salvato la vita innumerevoli volte nel corso dei milioni di anni di evoluzione. Un nostro simile mangia una bacca sconosciuta e comincia a sputare e gracchiare dal disgusto? Il nostro cervello traduce con “Hey, Leo, quella cosa fa schifo, non la mangiare”. E qual è il modo migliore per farcelo ricordare in futuro? Facendo finta che l’abbiamo mangiata noi, quella maledetta bacca.
Scimmie che seguono il branco.
Ho scelto il disgusto perché è uno dei sentimenti base (ti ricordi Inside-out?), ma questa precisa dinamica psicologica è estendibile anche alla gioia, alla paura, alla rabbia, alla tristezza, all’erotismo (ma non dirlo alla Disney!). Siamo degli specchi: non appena qualcuno del nostro nucleo sociale altera il suo comportamento siamo portati ad agire di conseguenza come dei poveri ebeti. Andiamo, l’abbiamo fatto tutti il giochino di svegliare qualcuno addormentato con un bell’urlo, e che grasse risate quando questo smontava dal letto urlando e pronto a battersi a mani nude contro un Grizzly. Già, sappi solo che qualche migliaio di anni fa se qualcuno ti svegliava urlando e non eri pronto a fuggire o a batterti, ci finivi DAVVERO nella pancia del grizzly. Scherzi a parte, se sei in un supermercato affollato e qualcuno comincia a urlare in maniera isterica e a fuggire, non stai tanto a pensare a cosa stai facendo, ma lasci a terra le tue borse e levi le ancore veloce come un fulmine, prima ancora di sapere se l’allarme è vero o falso. Non credere di essere un eroe dal sangue freddo: senza un particolare addestramento militare faresti così anche tu.
Insomma, questo è quello che lo psicologo americano Robert Cialdini, studioso della scienza della persuasione, ha definito come “riprova sociale”: banalmente, siamo più propensi a fare una cosa se lo fanno anche gli altri. E più gente lo fa, più i nostri simili compiono delle determinate azioni, più ci convinciamo che siano azioni giuste.
Un branco che non esiste.
Dopo tutto quello che è stato detto, è straordinario anche solo pensare che riusciamo a immedesimarci e a seguire, come se fossimo un branco, dei personaggi che nella realtà non esistono affatto. Ci sbellichiamo dalle risate quando vediamo un cane che abbaia e ringhia alla propria immagine riflessa nello specchio, ma cosa direbbe un essere razionalmente più avanzato di noi se ci vedesse ridere o piangere mentre imitiamo di riflesso le emozioni di un nostro simile che ci stiamo solamente immaginando? È una cosa così arretrata da lasciare sconcertati. Eppure, se leviamo questo velo cinico con cui ho introdotto questo argomento, ecco che comincia la magia. Questi nostri difetti evolutivi, queste personificazioni inconsce sono ciò che ci rendono umani, che ci fanno amare, e ci rendono uniti. Perché non siamo fatti per vivere in solitudine, ma abbiamo bisogno degli altri, di vivere all’interno di un cerchio sociale con cui interagire ed essere influenzati. E ce lo dice la scienza, ce lo dice l’antropologia, ce lo raccontano ogni volta le storie che viviamo.
Come creare un personaggio: il protagonista.
Ora puoi capire il perché i protagonisti delle storie che leggiamo/guardiamo siano per noi così magnetici. Il protagonista è il nostro punto di riferimento emotivo all’interno dell’universo narrativo che abita, un gancio emozionale che ci trasmette le ansie e le gioie delle avventure che sta vivendo.
Il nostro obiettivo ora è quello di creare un personaggio che possa popolare il mondo che abbiamo formato nel capitolo precedente. Esistono delle regole, degli elementi che possono aiutarci in questo duro compito? Scopriamolo insieme.
La lista della spesa.
C’è una cosa che mi fa sempre ridere quando vado bighellonando nell’infernet per prendere spunti o vedere cosa dicono gli altri pareri. Quando trovo un articolo o un post su come creare un personaggio da zero, solitamente queste cime (che non hanno la minima idea di come si costruisca un personaggio) propongono la solita tabella striminzita dove inserire delle semplici descrizioni. Scherzosamente le chiamo “le liste della spesa”, perché hanno esattamente la stessa utilità: nessuna. Hai presente quando fai una lista infinita di cose, vai al supermercato e puntualmente ne esci con il carrello pieno e nemmeno un oggetto della lista barrato? Ecco.
Di solito questi tizi ti propongono la sempreverde tabella alla gioco di ruolo (in questo senso sì, i giochi di ruolo hanno rovinato un sacco di cose), in cui mettere:
- Nome, cognome e data di nascita.
- Descrizioni fisiche banali come altezza, peso, capelli, occhi, forma dei genitali, eccetera eccetera.
- Che libri legge. Ah, un classico! Praticamente nei mondi di questi tizi tutti i personaggi leggono qualcosa, una roba che solo in un universo immaginario potrebbe essere fattibile, comunque…
- Cosa fa appena alzato alla mattina. Insomma dividono i personaggi in due grandi macro-sezioni: chi fa la cacca e chi no.
- Infinite tristezze che non ho il cuore di dirti.
Cos’è davvero un personaggio.
È inutile dirti che fare una banalissima lista su cosa sia o cosa non sia il tuo protagonista è una cosa del tutto superflua. O almeno, è una cosa utilissima finché il tuo obiettivo è creare un personaggio di contorno, una comparsa, in gergo tecnico chiamata archetipo, ma di questo ne parleremo tra poco.
Solo il fatto di catalogare un personaggio e di delimitarlo ne annulla di fatto il suo potere umano. Un personaggio davvero reale, vivo, deve essere in grado di cambiare idee, gusti, di evolversi per i fatti propri, purché mantenga una propria coerenza (dove abbiamo già sentito questo termine?) e che ci siano delle motivazioni valide alla base del suo cambiamento.
Insomma, si crea un personaggio bisogna pensare all’acqua: deve adattarsi alla forma del suo contenitore. Se è troppo rigido ci lotterà contro, ma sarà una lotta impari, e prima o poi si spezzerà. Ma se si modella alla forma della storia e decide di cambiare, anche a costo di enormi sacrifici, anche a costo di andare contro i suoi stessi principi, ne uscirà inevitabilmente trasformato. Il rischio, però, è che si snaturi troppo, che perda la sua espressività. Solo chi ha perso la voglia di vivere si lascia trascinare dalla corrente senza lottare. C’è invece una bellissima frase del Buddha che recita:
Se tendi la corda oltre misura, si spezzerà, e se la lasci troppo lenta, non suonerà.
L’equilibro che agisce quando creiamo un personaggio è proprio questo. Egli cambia continuamente, perché è la vita stessa che ce lo insegna. Ma, al contempo, deve avere dei principi o uno scopo per cui valga la pena di lottare, e di morire, se necessario. Questo precario equilibrio ha un nome: si chiama arco del personaggio.
L’arco narrativo di un personaggio.
Non ho ancora ben capito perché si parli di “arco” di un personaggio. L’esempio che fanno tutti è quello del famoso schema a grafico in cui ti si mostra il punto A) dove parte il nostro protagonista, la sua parabola ascendente fatte di resistenze, lotte, con un climax centrale dove avviene la svolta più importante (B), per arrivare infine al punto C). Il protagonista, trasformato dalle sue vicissitudini, prevale su se stesso e nel climax finale risolve i problemi del mondo (e i suoi). Alla fine ne esce un personaggio del tutto cambiato (in meglio, si spera).
Questa proposta è la famosa storia in tre atti (di cui ne parliamo meglio nel capitolo sulla trama), ma come vedi si sposa meravigliosamente con il famosissimo e pluri-premiato viaggio dell’eroe.
Il viaggio dell’eroe.
Andiamo, tutti noi sappiamo cos’è il viaggio dell’eroe. Coniato per la prima volta da Joseph Campbell, il famosissimo studioso di miti e religioni, è stato ripreso (anzi no, saccheggiato) da qualsiasi scrittore e creativo dagli anni ’50 ad oggi.
Per riassumere, il viaggio dell’eroe consiste nella raffigurazione simbolica del passaggio obbligato dall’infanzia, ossia dall’attaccamento materno eccetera, all’età adulta tramite un processo di morte/rinascita spirituale insita in ogni rito di passaggio di tutte le religioni del globo. L’Io infantile viene strappato dalla libido femminile della madre e ucciso, per poi rinascere in forma adulta e diventare il padre, l’uomo adulto capace di agire sulla propria sorte (destrudo).
Siamo sotterrati, sommersi ogni santo giorno da storie che fanno di questa parabola psicologica una forma essenziale da venerare. Quando il signor Campbell ne L’Eroe dai Mille Volti riuscì a codificare i principali simboli psicologici delle mitologie universali non stava certamente pensando ai futuri scrittori e ai loro problemi narrativi. Fatto sta che le sue opere sono state saccheggiate e vendute come formule matematiche, invece di essere usate solamente come fonte di ispirazione. E ce ne accorgiamo, ne siamo invasi costantemente da storie dallo spessore di una carta velina in cui il fott#*’&&im0 prescelto viene addestrato in qualcosa perché combatta contro il cattivo, che si rivelerà suo padre (o che ne farà spudoratamente le veci), per poi diventare il più bravo, il più bello, il più saggio, bla bla bla.
Salvateci.
Il problema del viaggio dell’eroe.
Non è un caso se negli ultimi decenni il filone più abusato e sfruttato sia quello dello young adult, del passaggio all’età adulta. Il mondo del fumetto è ostaggio di volumi e volumi di autobiografie su crisi di identità, nostalgia dell’infanzia, angoscia per la mancanza di figure chiave o genitoriali, sessualità fuori controllo o soffocata, insomma, tutti i maledetti problemi dell’adolescenza.
Il passaggio all’età adulta è sicuramente un percorso affascinante e terrificante allo stesso momento, ma basare un’intera filosofia di narrazione solamente su questo passaggio È RIDICOLO.
Scrivere storie è raccontare la vita. E la vita non è parlare solo dei problemi dagli 11 ai 20 anni. Se così fosse essere adulti sarebbe di una noia al limite dell’apatia. Il grande problema del viaggio dell’eroe è che sì, abbraccia un numero considerevole di tematiche care ad ognuno di noi, ma è anche estremamente limitante. Il vero problema del viaggio dell’eroe è il messaggio che trasmette, ma diventare adulti non è l’obiettivo finale. Una volta diventati adulti non ci si è realizzati e non si può fare quel cavolo che si vuole. Anzi, probabilmente iniziano i problemi veri: devi cercarti un lavoro, mantenerti da vivere, magari ti nascono dei figli e devi pensare a loro, magari divorzi, magari ti risposi, forse sbaglierai quegli investimenti così sicuri e dovrai comunque pagarti il mutuo della casa.
Probabilmente ci saranno orde di psicologi pronti a ribadire che i problemi dell’infanzia vanno risolti il prima possibile per non dover trascinarceli durante l’età adulta, e che il viaggio dell’eroe rappresenta solo questo. Ma noi non siamo psicologi: siamo narratori. Il nostro obiettivo non è curare le psicosi delle persone, ma raccontarle. Non dimentichiamolo mai.
L’evoluzione del personaggio.
Dal mio punto di vista, per creare un personaggio non serve a nulla fargli compiere un arco come una pallina da golf, e nemmeno farlo combattere contro i loro problemi affinché diventi IL signorino perfettino. Il nostro personaggio semplicemente si evolve.
Come avrai capito, sono un fan boy dell’evoluzione umana, e non posso non citare la frase che disse il professore di management Leon C. Megginson nel 1963 a proposito del pensiero darwiniano:
“Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”
Un personaggio DEVE evolversi per sopravvivere alla storia. Deve cambiare idea, deve cambiare il libro preferito, deve cambiare anche l’abitudine di fare la cacca alla mattina se la storia improvvisamente non lo permette. È proprio questo il motivo per cui devi nella maniera più assoluta lasciare perdere le liste della spesa quando crei dei personaggi. E, cosa ancora più importante:
Un personaggio non smette mai di evolversi, perché è il mondo stesso a cambiare costantemente.
Lascia perdere il vissero felici e contenti, lascia perdere il James Bond di ruolo che da più di 60 anni combatte i cattivi alla stessa identica maniera. Quelli non sono personaggi: sono stereotipi. Invece, se credi che un personaggio una volta superate le proprie crisi adolescenziali e diventato adulto sarà un essere perfetto, lascio che sia Siracide a concludere questo paragrafo:
“Alla morte di un uomo si rivelano le sue opere. Prima della fine non chiamare nessuno beato: un uomo si conosce veramente alla fine.” (11, 27b-28).
Come creare un personaggio secondario.
Tutto il discorso fatto fin’ora può reggere sul personaggio protagonista, l’EROE, ma… dobbiamo fare la stessa identica cosa con tutti gli altri?
Devi pensare ai personaggi secondari o di contorno come a dei pianeti satelliti che gravitano attorno al nostro protagonista. Alcuni ronzano attorno alla storia costantemente e a pochi centimetri di distanza, mentre altri compiono lunghe evoluzioni e compaiono solamente quando la loro orbita è in una certa traiettoria. Più sono vicini, più possiamo notare le loro evoluzioni e studiarli. Meno compaiono, meno potremo esplorarli in profondità, e di conseguenza ci sembreranno costanti nel tempo.
Archetipi.
Ed è qui che fanno la loro comparsa gli archetipi.
Il primo a definire in maniera profonda che cosa sia un archetipo è stato il famoso psichiatra svizzero Carl Gustav Jung, che lo descrisse così:
“L’immagine primordiale contenuta nell’inconscio collettivo, la quale riunisce le esperienze della specie umana e della vita animale che la precedette, costituendo gli elementi simbolici delle favole, delle leggende e dei sogni.”
Oggi volgarizziamo questo concetto con il termine “stereotipo”, ossia dei modelli pre-impostati, delle maschere che hanno un ruolo e una psicologia ben definita. Nella commedia dell’arte, Arlecchino, Brighella, Pulcinella, Pantalone sono le cosiddette maschere, ossia dei personaggi della cultura popolare di cui ognuno va attribuito un determinato ceto sociale e una specifica personalità. Ma non solo: ne “Il Viaggio dell’Eroe”, Chris Vogler riesce a definire molti archetipi che affollano le storie moderne, tra cui il mentore (o il vecchio saggio), il guardiano della soglia, il messaggero, il mutaforma, eccetera eccetera. Insomma, esistono delle figure simboliche ricorrenti all’interno delle storie che hanno particolarità uniche, e conoscerle a fondo può rendere eterogeneo il tuo cast quando crei i tuoi personaggi.
Figure complesse decrescenti.
Abbiamo detto che il nostro protagonista, per essere un personaggio vivo e profondo, deve evolversi costantemente nel corso della trama, mentre abbiamo appena descritto gli archetipi come figure definite, sfaccettate, ma assolutamente immobili.
Questa bizzarra dicotomia non può essere però semplificata così sommariamente. C’è bisogno, come al solito, di creare un ponte tra queste due figure e dividerlo per gradi.
Il nostro protagonista, per esempio, possiamo identificarlo come il sole nel sistema solare dei personaggi. Egli sta al centro perché è il nostro aggancio emotivo in cui possiamo immedesimarci al meglio. Attorno al personaggio gravitano i pianeti, ossia il nostro cast al completo. Il principio, come avrai già intuito, è molto semplice: più i personaggi ruotano vicino al protagonista, più questi acquisteranno profondità, mentre più ne saranno lontani, più saranno…stereotipati.
L’abito fa il monaco, ma solo come prima impressione.
Supponiamo che tu frequenti una palestra, e ogni giorno insieme a te si allena Paolo, un tizio di cui conosci solo il nome, ma che non hai mai avuto modo di conoscere. Ora, il nostro cervello compie una serie di step quando conosciamo gradualmente una persona. Vediamo come cambia la percezione che abbiamo di Paolo a mano a mano che intrecciamo una relazione con lui:
- Prima impressione: si dice che bastino cinque secondi per fare una buona impressione, e da quel momento è piuttosto difficile cambiare idea su una persona. Ed è proprio quello che succede: in pochi secondi il tuo cervello inserisce Paolo in una delle caselle preimpostate delle personalità. Bastano pochi attimi per definire Paolo uno sfigato, un coglionazzo, un tipo in gamba, un perfettino, un pompato, un disagiato, un figone, un cacasotto, un dongiovanni, eccetera eccetera. Insomma, non giriamoci troppo attorno: meno conosciamo una persona, più la stereotipiamo.
- Presentazione: “Hey, ciao, come va?” “Salve” “Piacere, Dottor Ingegnere Paolo” “C-ciao” “Bella fra!” “Buongiorno”. Basta una sola frase per rendere tridimensionale uno stereotipo, ed è la frase d’entrata. Magari hai continuato a vedere Paolo tutti i santi giorni per un mese pensando che fosse uno con la puzza sotto il naso, ma dopo due minuti esatti che vi siete conosciuti vi siete messi a parlare di quale film della terza trilogia di Star Wars faccia più schifo. Attenzione, non dico che lo stereotipo del punto 1 si sgretoli come argilla al sole, ma hey, “per essere uno che se la tira è simpatico!”.
- Frequentazione: Non solo J. J. Abrams deve nascondersi per via delle vostre frecciate, ma ora che vi frequentate avete anche allargato gli argomenti a vostra disposizione. Cominci a sapere di più di Paolo: che lavoro fa, il suo stato sentimentale, che tipo di circolo sociale frequenta, che ne pensa di politica, sport, e si intravede anche una sua filosofia di vita. Paolo sta cominciando a diventare una persona tridimensionale, anche se vediamo solo alcune facciate del suo ego, e molte cose rimangono a noi ancora ignote.
- Amicizia: molti scambiano il fatto di frequentare qualcuno con amicizia, ma non c’è nulla di più diverso. Con un amico quasi ci si confessa: paure, piccoli segreti, ansie… ma anche amori, delusioni, aspirazioni. Quando si diventa amico di qualcuno, le ultime maschere dello stereotipo dato alla prima impressione vengono disintegrate. Paolo a prima vista potrebbe sembrare uno spaccone che si fa beffe di tutto, ma è quando lo conosciamo davvero che capiamo che è vero il contrario. Paolo diventa una persona fragile, insicura, che adotta la maschera del duro per difendersi dal mondo, anziché per prendersi beffe di lui. L’amicizia è l’area delle confidenze. Paolo ora è un personaggio a tutto tondo, ma ancora non basta.
- Intimità: “Forse tu sei perfetto ora. Forse è questo che non vuoi rovinare. Questa la chiamerei una “super filosofia”, Will, così puoi in effetti passare tutta la vita senza dover conoscere veramente qualcuno… Mia moglie scoreggiava quando era nervosa. Aveva una serie di meravigliose debolezze. Aveva l’abitudine di scoreggiare nel sonno! […] Momenti stupendi, sai, piccole cose così. Però… sono queste le cose che più mi mancano. Le piccole debolezze che conoscevo soltanto io. Questo la rendeva mia moglie. Anche lei ne sapeva delle belle sul mio conto, conosceva tutti i miei peccatucci! Queste cose la gente le chiama imperfezioni, ma non lo sono. Sono la parte essenziale. Poi dobbiamo scegliere chi fare entrare nel nostro piccolo strano mondo. Tu non sei perfetto, campione. E ti tolgo dall’incertezza: la ragazza che hai conosciuto, non è perfetta neanche lei. Ma la domanda è se siete o no perfetti l’uno per l’altra. È questo che conta. È questo che significa intimità. Puoi sapere tutte le cose del mondo, ma il solo modo di scoprire questa qui è darle una possibilità. Certo, non lo imparerai da un rincoglionito come me. E anche se lo sapessi non lo direi a un piscione come te.”(Robin Williams, Will Hunting di Gus Van Sant, 1997).
In parole povere.
Gli archetipi sono delle semplificazioni che ci aiutano a riconoscere a catalogare le psicologie più diffuse tra quelle che ci circondano. Eppure sotto queste maschere anonime si nascondono drammi, insicurezze, ambizioni, amori, gelosie e invidie, proprie di una persona reale e viva, come me e te. Capire questo principio può aiutarti nel trasformare un semplice stereotipo di primo acchitto in un personaggio profondo e sfaccettato.
Conclusioni.
Creare un protagonista non è affatto semplice, figuriamoci l’intero cast della nostra storia. Eppure, lasciando perdere tabelle e grafici pre-impostati, l’idea di base per costruire una personalità viva e forte è piuttosto semplice, una volta capito il meccanismo.
Si dice che la vecchiaia amplifichi i propri difetti, oppure che addolcisca i nostri pregi. L’unica cosa certa è che non si rimane nel mezzo, prima o poi un cambiamento arriverà, nel bene o nel male. Ed è quello che fanno i nostri personaggi: si evolvono, si trasformano in base all’universo in cui vivono. Se non avessimo stimoli esterni rimarremmo uguali per l’eternità, ma così non è: siamo costantemente influenzati da ciò che ci circonda, che siano le stagioni, malanni fisici o l’umore delle persone. Ma soprattutto, viviamo in contesti sociali antichi di milioni di anni. Non si possono annichilire gli istinti primordiali di far parte di una collettività, di un gruppo. Da ciò è nato il meccanismo psicologico più importante per un narratore: l’empatia, e l’immedesimazione. Senza di esse le nostre storie non sarebbero così magiche.
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